Le Rece! Ogni cosa è illuminata

IN SINTESI: Ogni cosa è illuminata di Jonathan Safran Foer è un romanzo che consiglio a chi ha il tempo e la voglia di immergersi in qualcosa di particolare, con due stili nettamente diversi che si intrecciano, e con due storie ambientate in tempi diversi ma luoghi sovrapposti. Non è di certo un libro adatto a chi sta cercando una lettura di evasione, sia per il modo in cui è scritto sia per le tematiche trattate. Come in un eterno paradosso, questo romanzo fa riflettere sull’assurdità della guerra rendendo assurda l’intera realtà.


RECENSIONE DEL ROMANZO “OGNI COSA È ILLUMINATA” DI JONATHAN SAFRAN FOER

Inauguro la rubrica Le Rece! con un romanzo che ho fatto fatica a recensire.

Ogni cosa è illuminata (Everything Is Illuminated), pubblicato nel 2002, è l’opera prima di Jonathan Safran Foer, allora venticinquenne. E lasciamelo dire, è un’opera prima coraggiosa.

Copertina di Ogni cosa è illuminata di Jonathan Safran Foer

Ho recuperato il romanzo ricordandomi della trasposizione cinematografica con Elijah Wood nei panni di Jonathan Safran Foer. Jonathan è un ventenne ebreo americano, nonché omonimo dello scrittore, in quanto la storia ha una sfumatura autobiografica. Sono rimasto impressionato positivamente sin dalla prima frase del libro: lo stile è identico alla parlata da straniero di Alexander Perchov, voce narrante nel film. Ti riporto l’incipit per fartene un’idea.

Il mio nome per la legge è Alexander Perchov. Ma tutti i miei amici mi chiamano Alex, perché è una versione del nome più flaccida da pronunciare. Mia madre mi chiama Alexi-basta-di-ammorbarmi perché sempre la ammorbo. Se volete sapere perché sempre la ammorbo, è perché sempre sono in altri posti con amici, e seminando tanta moneta e eseguendo così tante cose che possono ammorbare mia madre. Mio padre mi chiamava Shapka per il cappello di pelliccia che calzavo in testa anche nei mesi d’estate. Poi ha smesso di dirmi così perché gli ho ordinato di smettere di dire così. Mi sembrava un nome bambinoso, e io invece mi sono sempre pensato un uomo molto potente e inseminativo.

È uno stile originale ma scorrevole, zeppo di espressioni buffe, quali “fabbricare le Z” per intendere che qualcuno sta dormendo.

Come nel film, il romanzo è incentrato su un viaggio particolare. Siamo nel 1997, in Ucraina. Alex vive con i genitori, il fratellino “Piccolo Igor” e il nonno a Odessa, che per lui è una città “con molte spiagge famose dove le ragazze sono sdraiate sulla schiena e esibiscono petti di prima classe”, in definitiva “come Miami”. Si atteggia a duro e sciupafemmine, ma in realtà è sempre costretto a eseguire gli ordini del padre e del nonno.

La famiglia Perchov ha un’agenzia di viaggi, la Viaggi Tradizione, specializzata nel portare ebrei stranieri a visitare i luoghi in cui i loro parenti vivevano prima della Seconda Guerra Mondiale. Alex, in veste di interprete, parte col nonno e la loro cagna alla volta di Lvov per recuperare in stazione il loro nuovo cliente. I personaggi, ritratti in modo comico, sono subito ben identificabili grazie a qualche caratteristica peculiare. Alex, che narra la storia, lo si adora per la simpatia e la finta spavalderia; il nonno burbero, diventato “melanconico” dopo la morte della moglie, sostiene di essere cieco ma in realtà ci vede benissimo, e infatti è lui a guidare la carretta. Tuttavia il vecchio sente il bisogno di avere con sé la cagna guida, Sammy Davis Junior Junior, chiamata così in onore del suo cantante preferito, la quale fa puzzette terribili in auto ed è in definitiva una “debosciata mentale”.

A Lvov incontrano Jonathan, giovane ebreo americano e aspirante scrittore, da Alex definito l’eroe del loro “molto rigido viaggio”. Vengono a sapere che due anni prima Jonathan ha ricevuto dalla nonna una foto ingiallita del nonno da giovane, ritratto assieme a una ragazza e alla famiglia di lei. Dietro la foto, una singola frase: “Questo sono io con Augustine, 21 febbraio 1943″. Pare che si tratti della famiglia che ha salvato il nonno dai nazisti. Jonathan si è recato in Ucraina proprio per cercare Augustine, che forse vive ancora a Trachimbrod, un piccolo paese riportato solo in vecchie mappe in suo possesso, a volte col nome di Sofiowka. Il quartetto si avvia in direzione di Trachimbrod, tra un susseguirsi di scene comiche – Jonathan ha la fobia dei cani, e la cagna guida gli sta addosso perché è attratta dalla sua colonia – e continue incomprensioni linguistiche, che raggiungono l’apice nella scena del ristorante di un hotel, dove si scopre che Jonathan è vegetariano, scatenando lo stupore di tutti, cameriere compreso. Tuttavia, nuovi dubbi iniziano ad angosciare Alex.

Sono tornato indietro, nella mia stanza e stanza del Nonno. […] Io sapevo che non riusciva a riposare. Era per lo stesso motivo che non riuscivo a riposare io. Tutti e due stavamo pensando alla stessa domanda: cosa aveva fatto lui, durante la Guerra?

Dopo aver chiesto informazioni su Trachimbrod a diversi contadini poco disponibili al dialogo, il gruppo giunge a una casa in mezzo ai campi in cui vive una donna anziana in perfetta solitudine. Sotto le insistenze di Alex e dopo l’ennesimo “Stiamo cercando Trachimbrod”, la donna si arrende, scoppiando in un fiume di lacrime. “Siete arrivati. Sono io” confessa. Da qui in poi, la storia assume toni commoventi. Attraverso i dialoghi, si fa un tuffo nel passato dell’anziana donna e del nonno di Alex. Seppure il libro mantenga ancora qualche momento comico, la drammaticità ha la meglio, col suo apice in un monologo che verso la fine si trasforma quasi in un flusso di coscienza – in un capitolo il cui titolo è proprio “Illuminazione”. Non dirò altro per non fare spoiler, perché quelle pagine meritano di essere scoperte leggendole. Da brividi.

Questa è la storia del viaggio. Una storia che parte esilarante e che poco alla volta si fa intimistica e drammatica. Una storia che è un modo diverso, forse all’inizio più spensierato, per parlare della guerra, e soprattutto di ciò che essa lascia nel cuore delle persone, anche a distanza di decenni. Come esempio, ecco un immaginario scambio di pensieri tra Alex e il nonno.

(Tu hai dei fantasmi?)

(Sicuro che ho dei fantasmi.)

(E come sono i tuoi fantasmi?)

(Sono dentro le palpebre dei miei occhi.)

Adesso drizza per bene le antenne, perché c’è un colpo di scena importante!

Già dalla sinossi si capisce che questo romanzo è composto non da una, bensì da due storie. Nel film ne hanno trasposta solamente una, quella che vi ho appena descritto. La seconda storia si alterna alla prima per tutto il libro, ed è una digressione sugli abitanti che nel corso dei secoli hanno vissuto a Trachimbrod. Per essere più precisi, poco dopo la pagina trenta si capisce che il romanzo è addirittura tripartito. Un piccolo elenco può permettervi di capire meglio la struttura del romanzo:

− racconto del viaggio intrapreso nel 1997 per cercare Augustine. Il POV (point of view) è di Alex, che scrive in prima persona;

− storia secolare degli abitanti di Trachimbrod. Lo stile è completamente diverso, senza inflessioni straniere, più mordace e iperbolico. Questi capitoli sono scritti in terza persona singolare da Jonathan;

− lettere di Alex, tutte scritte dopo la fine del “rigido viaggio” e inviate a Jonathan dopo che è tornato negli Stati Uniti. Alex parla di sé e della sua famiglia, commenta i consigli di editing di Jonathan riguardanti il racconto che sta scrivendo sul loro viaggio, e aggiunge delle riflessioni personali sulla storia di Trachimbrod che Jonathan sta redigendo.

Le tre parti si alternano in quest’ordine per tutto il libro. Si capisce, quindi, che le prime due parti sono costituite dai libri che i protagonisti stanno scrivendo ognuno per conto proprio, ma fornendosi aiuti e consigli a vicenda per mezzo epistolare.

Spiegato tutto ciò, passerei alla parte del romanzo che narra la lunga storia di Trachimbrod.

 Questa parte, scritta da Jonathan, ha richiesto una lettura attenta e certosina. Non lo definirei un problema riguardante lo stile che, seppure non immediato come quello di Alex, risulta abbastanza scorrevole. È, tutt’al più, un problema di contenuti, in particolare di come è impostata la narrazione. Infatti, appaiono di colpo tanti personaggi che vengono presentati come in una parabola o in una fiaba, spesso tratteggiati con un’unica caratteristica in chiave ironica o tragicomica (es: il Riverito Rabbino). Più volte i capitoli si aprono in medias res, con personaggi nuovi, salti temporali e battute sottili a volte difficili da cogliere. Bisogna cercare di fare mente locale e provare a collegare un fatto a un altro, o aspettare che il tutto trovi un senso logico procedendo con la lettura. La storia di Trachimbrod è un’iperbole in sé, un’esagerazione, qualcosa che sembra attinto dalla realtà ma stravolto all’inverosimile. È necessario pensare di stare leggendo storie che, se non pressoché impossibili, sono quantomeno improbabili. Una volta accettato tutto ciò, si potrà godere di un lungo racconto che abbraccia diverse generazioni. Si rivive la storia del paese (shtetl in ebraico) in due epoche ben precise, ovvero nei decenni in cui sono vissuti due importanti antenati di Jonathan: la “bis-bis-bis-bis bisnonna Brod” (fine Settecento, inizio Ottocento) e il nonno Safran, il quale scapperà dall’Ucraina durante la Seconda Guerra Mondiale per andare a vivere negli Stati Uniti, dopo aver perso moglie e figlio.

Per spiegarvi il perché di questa lunga digressione, devo fare un piccolo spoiler: Jonathan riceve dall’anziana donna che incontrano lungo il viaggio una scatola intitolata CASOMAI, piena di oggetti appartenuti agli abitanti di Trachimbrod, in cui è presente anche un rotolo chiamato Libro degli antecedenti. In questo libro, che è un po’ una storia di Trachimbrod e un po’ un testo sacro, sono riportate le trascrizioni dei sogni degli abitanti del villaggio, gli editti dello shtetl e i fatti più importanti accaduti. Da questo Libro, Jonathan attinge a piene mani per dare vita alla storia dei suoi antenati.

Dapprima ci si concentra su una neonata pescata nel fiume Brod, tra i resti sparsi del carro di un certo Trachim, il cui corpo non è mai stato ritrovato, tanto da crearsi intorno a lui un alone di mistero, che porterà il villaggio a indire una gara-sagra annuale per ricordare l’evento. Rimasta orfana, la neonata viene adottata per mezzo di un’estrazione dal vecchio Yankel, che la chiama Brod come il fiume, e sempre per estrazione e grazie a Yankel, il nome dello shtetl dall’odiato Sofiowka diventerà, almeno per i suoi cittadini, Trachimbrod (la storia del nome dello shtetl è piuttosto spassosa). L’esistenza di Brod è travagliata, in quanto sin da bambina sente di non essere felice, nonostante l’intelligenza e la bellezza che la caratterizzano, e nonostante l’amore di Yankel nei suoi confronti, che lei crede essere il suo vero padre. Il matrimonio, che pare stemperare le avversità, non sarà dei più felici. L’uomo che diventerà suo marito, incontrato proprio nel momento in cui Brod scopre che il padre è morto, sarà ben presto vittima di un infortunio che gli modificherà drasticamente la personalità, rendendolo manesco e violento.

La seconda è la storia del nonno di Jonathan, Safran, nato coi denti e quindi presto costretto a bere latte di mucca, non abbastanza nutritivo, che non gli permette di sviluppare appieno il braccio destro, che resta come morto. Stranamente, quel braccio morto è in grado di far innamorare di lui più di un centinaio di donne, ma Safran scoprirà l’amore solo con la moglie, nel momento in cui concepiscono il loro figlio.

Queste due storie, che come avrete intuito sono inverosimili, vengono intramezzate dalle vicende più generali del villaggio, dagli editti proclamati nel corso del tempo e dai sogni degli abitanti riportati nel Libro degli antecedenti. Sono proprie delle storie nella storia, un po’ come le parti di una matrioska.

A questo punto, viene naturale chiedersi perché l’autore abbia inserito questa lunga digressione su Trachimbrod, tanto da farne una storia a sé stante. Me lo sono chiesto anch’io, sia durante la lettura sia dopo. Credo che l’intento sia stato quello di rendere più forti e pregnanti le tematiche già inserite nel racconto del “rigido viaggio”, quasi da creare un parallelo tra le due storie. In entrambe, infatti, temi fondamentali sono il significato dell’amore, il viaggio, il potere della famiglia e del destino, l’esistenza – e inesistenza − di Dio, il ricordo, la felicità, la tristezza, il senso della guerra. Le storie individuali di Brod e Safran sono da considerarsi quasi delle metafore. Ciò spiegherebbe il perché dello stile così iperbolico e tragicomico, e il surrealismo delle vicende.

Leggendo, non ho potuto fare a meno di creare un parallelo tra i ricordi reali anche se dolorosi della vecchia donna e del nonno di Alex, e il desiderio di Jonathan di creare dei ricordi seppur inventati sulla propria famiglia, spezzata dalla guerra. Che sia questo il senso della dedica del romanzo, “Semplicemente e impossibilmente: Alla mia famiglia“?. L’importanza del ricordo e del proprio passato è presente anche nella storia di Brod, quando Yankel, a furia di raccontare a Brod di una moglie che non ha mai avuto, “sentiva di averla persa. Lui l’aveva persa. Di notte rileggeva le lettere che lei non gli aveva mai scritto”. E sempre Yankel, terrorizzato dalla perdita della memoria per via dell’età avanzata, inizia a scrivere bigliettini per non perdere per sempre il proprio passato e per ricordarsi chi è e quali sono i propri compiti, sino ad arrivare a scrivere: “Tu sei Yankel. Tu ami Brod”. Un’altra similarità l’ho trovata da una parte tra la vicenda del nonno di Alex, attanagliato dai ricordi della guerra, i cui peccati sente di aver trasmesso al figlio e ai nipoti, perché “un padre ha sempre responsabilità per quello che è suo figlio”, e il riuscire poi a essere “al completo della felicità,” a modo suo, dopo aver rivelato tutto al nipote; dall’altra, vi è l’incapacità di Brod di essere felice perché vive nella menzogna, in quanto “tutti le dicono bugie”, come scrive Alex in una delle sue lettere. “Anche suo padre che non è suo padre vero. Io ho pensato questo quando tu dici che Brod “non sarebbe mai stata al contempo felice e sincera”. I parallelismi e le ricorrenze di certe tematiche sono infiniti, e servirebbero probabilmente più di cinquanta pagine per parlarne in modo esaustivo.

VALUTAZIONE FINALE

Tirando le somme, Ogni cosa è illuminata è un romanzo che consiglio a chi ha il tempo e la voglia di immergersi in qualcosa di particolare, con due stili nettamente diversi che si intrecciano, e con due storie ambientate in tempi diversi ma luoghi sovrapposti. Non è di certo un libro adatto a chi sta cercando una lettura di evasione, sia per il modo in cui è scritto sia per le tematiche trattate. Come in un eterno paradosso, questo romanzo fa riflettere sull’assurdità della guerra rendendo assurda l’intera realtà.

Per essere un’opera prima di un venticinquenne è molto pretenziosa, a tratti forse immatura, ma non posso che complimentarmi perché la resa finale è notevole. Per me sono 5 stelle su 5.

Classificazione: 5 su 5.

SCHEDA LIBRO

Autore: Jonathan Safran Foer 

Anno prima edizione originale: 2002

Lingua originale: inglese

Editore italiano: Guanda

Pagine versione cartacea: 336 (disponibile anche in ebook)

Link d’acquisto: Amazon | Ibs | Kobo

2 pensieri riguardo “Le Rece! Ogni cosa è illuminata

  1. In effetti non promette affatto di essere una lettura semplice. Complimenti per la capacità di analisi: oltre che robusta, riesce a incuriosire 😉

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